INTRODUZIONE di Giovanni Di Tommaso

Non a caso questa raccolta si intitola “Tursi… Pane Casereccio”, la voce del poeta si leva solitaria come un albero in un deserto. Perché essa non si preoccupa di seguire le mode letterarie di oggi. E’ una poesia semplice, quotidiana, ma sorretta dal soffio di una ispirazione continua e fresca. Il poeta ha avuto il coraggio di rompere con i temi intellettualistici e lontani dal senso comune della poesia contemporanea, per avvicinarsi ad un canto impastato di realtà, di sentimenti comuni, ma non per questo meno universali. Ciò che maggiormente gli preme è cogliere con immediatezza il senso della vita nascosto dietro la facciata elegante e ricca. E della vita egli ha una concezione piuttosto amara, perché conosce gli inganni e la presunzione di coloro che vogliono racchiudere il suo mistero”con una rete di parole”. Conosce, in una parola, la miseria dell’uomo. Egli però tenta di sollevarsi da “questo fondo melmoso” per aggrapparsi a ciò che di più bello è nella vita: l’amore, la dolcezza di un bacio, la tenerezza di un abbraccio, l’ansia e l’attesa di un appuntamento, la sensazione di vuoto che segue al contatto amoroso. Ma anche questo è un mondo evanescente e fuggevole. Non riesce mai a possederlo per intero come vorrebbe. Anche l’immagine più cara “sbiadisce, si affievolisce, fino a concentrarsi in un punto di fuoco”. E’ arduo seguirla e rincorrerla “Ti scorgo, sei, ma si, sei dietro l’erba alta del muraglione. Appari, scompari, riappari. Quanto è arduo seguirti”. I sentimenti riaffiorano “di tanto in tanto dal melmoso fondo dell’anima. Secondi, attimi. Poi s’affondano, s’imbrigliano tra le alghe del male”. Come fare? Sprofondare “in questo mare deserto”, in modo da non sollevarsi più fino alla perdizione? No. Il poeta sente che la vita è troppo bella per sciuparla così. Anche se l’amore non viene, o meglio, anche se esso sfugge di mano ed è disperazione in noi dobbiamo aver la forza di sollevarci, di alzare il capo, “M’empio di pura ebbrezza attraversando il viale stellato che va al centro”. “Mi soffermo, il viale è la mia strada”, “Sono solo, con le stelle”. Forse la salvezza è nella natura dove la singolarità umana scompare, dove l’uomo si sente inserito in un giro immortale. Questa intuizione è l’ancora di salvezza a cui il poeta s’aggrappa per non affondare. E così si avvicina al mondo semplice del contadino. E’ un mondo mitico che esercita un sottile fascino sul suo animo. Nel suo cammino solitario e disperato verso la ricerca della felicità, l’incontro con Tursi, paese lucano in provincia di Matera, è provvidenziale. Lì vivono, se pur sepolti da un largo strato di polvere che il tempo ha fatto ammucchiare, gli antichi miti del contadino. Il mito è una regione incantata, dove l’uomo vive in stretta simbiosi con la natura. Ed è beata l’incoscienza. “L’incrocio coi contadini è un rimembrar d’ingenua fanciullezza”; “Qualche giorno brandirò le mani a mò di manganello pur d’arrivar alla luce che penetra dalle fessure degli anni passati”. Tutto è limpido, terso e beato, nel mondo contadino. Egli conosce la sapienza antica di scrutare persino i desideri e le intenzioni della natura, perché il suo occhio e la sua mente non sono inquinati dalle deformazioni della tecnica. “Sai tutto sul vento, la carezza, l’intenzione, la potenza? Chiedilo al contadino. Sai tutto sulla terra, il profumo, l’affetto, il calore? Chiedilo al contadino”. Anche alcune poesie di quest’ultima fase della vita spirituale del poeta, quali “La notte”, “La mamma”, in cui sembrano riaffiorare i motivi dominanti della prima fase, non sono altro che variazioni sul tema del ritorno alle origini, alla terra, alla “grande madre”. Per la madre egli ha soffocato tutto, ha mutilato persino il suo orgoglio irriducibile. La madre, nella mente del poeta, è simbolo di pace, di quella perfetta tranquillità assaporata quando viveva felice ed incosciente nel suo grembo. “Per te ho mutilato l’orgoglio. La tua vanga ha sotterrato il mio animo ribelle nella debole illusione d’amore”. Anche la notte è simbolo di quiete, di tranquilla incoscienza, “Amo la notte, perché ridona alla natura l’originario e mesto volto, condannando nell’ombra, quanto, complici col dì, abbiamo tramato”. E’ una pace solenne, religiosa, quella che ci ispira la notte, “A mani giunte dinnanzi all’austerità della tua pace. Ne aspiro profondamente l’essenza, riempiendo polmoni ed ossa. Poche boccate e tocco l’immenso e sento di dominare me stesso, di biasimare l’istinto a volte pellegrino”. C’è da concludere accennando qualcosa sullo stile. E’ uno stile succoso, tutto cose. Non appaiono in esso gli orpelli e le fatiche della forma. A volte è anche duro, della stessa durezza delle zolle di terra a cui si ispira. Il soffermarsi, infatti, sul verso, sull’espressione elegante e musicale, sarebbe un inutile ostacolo per il prorompere dei sentimenti che vogliono venire alla luce nella loro intatta originalità. Così il verso esce dalla penna del poeta già fatto, perché tra l’ispirazione e l’espressione non c’è la mediazione dell’intelletto.

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