INTRODUZIONE “Difficilmente ciò che abita vicino alla sorgente, abbandona il luogo” (FRIEDRICH HÖLDERLIN, La migrazione, vv. 56-57)
Quando Vincenzo D’Acunzo mi ha chiesto di scrivere un’introduzione per questi ritratti, ho immediatamente pensato a questi versi di Hölderlin, che ho poi scelto come titolo per queste riflessioni. Ho ritenuto di poter rispondere a questa richiesta con una riflessione più metafisica che estetica, partendo da quello che è l’inizio della speculazione di Martin Heidegger sull’arte: il saggio L’origine dell’opera d’arte, pubblicato nel 1950 in Sentieri interrotti. Nelle prime battute di questo saggio, che è una rielaborazione della conferenza tenuta sotto lo stesso titolo una volta a Friburgo in Brisgovia nel 1935 e tre volte a Francoforte sul Meno nel 1936, Heidegger pone per la prima volta la questione dell’essere in un luogo che non è la metafisica, vale a dire l’opera d’arte, affermando che l’arte deve essere pensata “a partire dall’evento del senso dell’essere” e deve, perciò, essere “contemporaneamente determinata come «porre in opera la verità»”. Nelle pagine che seguono spiega questa scelta con una motivazione veramente interessante: “Molta parte dell’ente sfugge al dominio dell’uomo. Poche cose sono conosciute. Ciò che è conosciuto lo è approssimativamente; ciò che è posseduto lo è precariamente. In nessun caso l’ente è ciò che potrebbe sembrare a prima vista, cioè qualcosa in nostro potere e meno ancora una nostra rappresentazione” (Sentieri interrotti, pp. 37-38). La riflessione di Heidegger ruota attorno al vero e proprio nocciolo della questione e mette in significativa evidenza l’appartenenza reciproca tra opera d’arte e artista che “riposano «assieme» nell’essenza dell’arte”. In quanto “messa in opera della verità”, l’arte “fa scaturire la verità”, muovendo da una “provenienza essenziale”. Ma è condizionata da una “ambiguità essenziale”, costituita dal fatto che la verità “è ad un tempo il soggetto e l’oggetto del porre in opera”. E questa “messa in opera della verità” è il “modo in cui l’uomo esperisce l’arte e ne decide l’essenza”. Visti sotto questa prospettiva, i quadri di D’Acunzo, come i suoi versi densi e asciutti, fanno scaturire la verità dell’essere, senza che questa esperienza metafisica si trasformi in astratta necessità di pensiero. Con senso di inquietudine e di curiosità, che spesso diventa anche forte desiderio di fuga, D’Acunzo cristallizza esperienze materiali e immateriali in una memoria biografica che in alcuni casi evoca un totale sradicamento, in altri un’ancestrale appartenenza. Nella serie dei ritratti raccolti in questa mostra, come nei componimenti poetici, l’ispirazione di D’Acunzo ruota intorno ad alcuni nuclei fondamentali e, senza la mediazione dell’intelletto, con straordinaria facilità di ispirazione ed espressione riesce ad avvicinare la realtà attraverso la forza misteriosa e trasfigurante dell’opera d’arte. La realtà è trasfigurata: cupi bagliori illuminano di luce insolita le figure o colori smaglianti - Omero e Pindaro usano talvolta la parola κοσμος nel senso di ornamento lucente che fa risplendere colui che lo porta - inavvertitamente diventano più continui e più densi. In questa trasfigurazione si nota tuttavia il dissidio individuale e interiore che travaglia il pittore, che non diventa mai delusione, anche se acuito dal vuoto e dalla mancanza di coscienza che si manifesta nella società. Le linee tracciate cercano un termine di paragone nei personaggi e, soprattutto, nelle tensioni del loro animo, manifestando un’immedesimazione non solo immaginifica ma anche concreta dell’artista nell’opera, a conferma dell’appartenenza reciproca tra opera d’arte e artista. Veramente emblematici sono i ritratti di Madre Teresa di Calcutta e di don Oreste Benzi: nei tratti dolci di Madre Teresa, abbellita dalla singolarità della sua vita, emerge la sublime semplicità con cui questa persona, esile e piccola, si è avvicinata all’uomo sofferente; nel sorriso luminoso di don Oreste non si scorge quella opacità caratteristica delle persone definitivamente scomparse. Nelle loro vite spese con gioia al servizio degli ultimi e degli indifesi, degli sfruttati e dei diseredati, il pittore rappresenta l’infaticabile lotta contro la povertà drammatica dei “più poveri dei poveri”, ma soprattutto l’esasperato bisogno di speranza dell’uomo, che ricerca la parte buona di sé nella risposta al dono dell’amore. Del tutto inaspettata in questa galleria di ritratti è la presenza di Miles Davis, personalità irrequieta e grande genio del jazz, che con ogni tipo di contaminazione ha inciso profondamente nelle mutazioni della musica moderna, dal jazz al pop. Non è difficile leggere in questa scelta una certa predilezione per il carattere notoriamente difficile e scontroso di Davis e per la sua capacità di sorprendente autoironia. Non altrettanto inaspettata è la presenza di Marco Pantani. Con la sua affermazione “A volte chiudiamo gli occhi perché la verità non ci piace”, in contrasto irriducibile con la sua tragica morte, Pantani ci ricorda che noi possiamo raccogliere o lasciar cadere, disconoscere o nuovamente ricercare le decisioni essenziali della nostra storia. Davvero stupefacente la presenza di Alda Merini, la cui follia e genialità non ha mai tradito il suo destino di poetessa, alla quale D’Acunzo appare accomunato da quella “interiorità concettuale, raggiunta di colpo, per via di istinto”. La poetessa, a cui il manicomio ha rivelato la “grande potenza della vita”, come scrive nell’opera in prosa La pazza della porta accanto, sembra dire di aver “goduta tutta” la vita, perché le è piaciuto “anche l’inferno della vita”. Si tratta di un rovinoso corpo a corpo con la drammatica e sconvolgente esperienza della follia, in cui l’essere umano può essere trascinato in una segregazione e in un luogo indicibile, dove non c’è spazio per il futuro. Questo straordinario e impietoso scavo nell’esistenza umana continua con il ritratto di Albino Pierro, nel cui universo poetico il pittore sembra trovare una risposta e un riparo agli effetti della follia. Incastonato nella fantasmagoria dei colori del celebre dipinto di Renato Guttuso, La Vucciria, metafora della Sicilia e di Palermo, questa raffigurazione di Pierro - per la sua interpretazione non è da trascurare nemmeno il significato di “confusione” che la parola “vucciria” ha in dialetto siciliano ritratto - si colloca tra poesia e pittura. Gli occhi di Pierro sembrano sbarrati e sembrano cogliere il vuoto e la solitudine senza rimedio nascosti nella varietà dei colori, degli odori e delle voci, che sono la maggiore caratteristica di questo mercato palermitano. Questa scelta di inserire la rappresentazione di Pierro nel dipinto di Guttuso oggi conservato a Palazzo Chiaramonte (detto anche Steri) è segnata dall’evidente predilezione di D’Acunzo per la parabola esistenziale e artistica di Guttuso, le cui tendenze raffigurative si inseriscono nell’evoluzione in senso “realista” della pittura italiana, quasi in contrapposizione a certe tendenze “formaliste” di molta arte astratta. Ma nella nostalgica evocazione di Pierro - un’evocazione memoriale sempre in rapporto al presente - mi sembra di cogliere un’altra ben più importante assonanza: l’amara esperienza affettiva per la scomparsa della madre. Per Pierro questa morte, che il poeta avverte come una violenza o trasgressione etica, trova emendazione nella poesia, che gli consente di ripercorrere la sua infanzia a Tursi e la sua vita successiva attraverso la felicità del ricordo. Per D’Acunzo questa funzione è assolta dalla pittura, con cui tenta il recupero memoriale del proprio mondo forse perduto. Nella raffigurazione di Pierro è possibile leggere una sorta di confessione delle implicazioni metafisiche dell’opera dell’artista: una sorta di trasfigurazione tesa al di-svelamento della verità dell’essere. Le linee tracciate dal pittore giungono così al centro tematico, il luogo che genera l’idea stessa della bellezza, che è il termine di paragone anche dei personaggi di Tursi raffigurati nei ritratti, che sono anche il luogo topico per evocare la malinconia per un mondo che sembra appagarsi più dell’avere che dell’essere. Ognuno di questi ritratti può costituire la chiave di lettura dell’intera raccolta e, nel contempo, rappresenta l’alter ego dell’artista, che trova ovviamente la sua immagine immedesimata soprattutto nell’Autoritratto, che nel chiaroscuro del volto rivela un’insanabile contraddizione tra lo sguardo all’inesausta ricerca dell’infinito e il ricadere entro il limite della condizione umana (la lotta adombrata dai Greci tra il giorno e la notte). La risonanza di questo dissidio ritorna nelle raffigurazioni dei quattro Evangelisti, il cui privilegio della parola rivelata ricade entro il limite della loro rappresentazione umana. Chi guarda è portato a staccarsi dalle abitudini dell’iconografia tradizionale e ad aprirsi a una dimensione che si dilata in modo inusuale. Ma la raffigurazione, alla fine, si ricompone in una rievocazione comunque allusiva a come sempre sono stati visti e conosciuti gli evangelisti. Nelle figure degli Evangelisti D’Acunzo dà espressione alla sua cognizione della trascendenza, senza smettere il continuo e lacerante dissidio tra finito e infinito, tra terra e cielo. Con maturità meditativa sembra stemperare questo dissidio nei colori e nelle linee tratteggiate entro una naturale accettazione della trascendenza evocata. Negli Evangelisti, come negli altri ritratti, i moti interiori del pittore danno sviluppo a una dimensione descrittiva nella cui materia espressiva è possibile cogliere il passaggio da una posizione contemplativa «esterna» a una posizione contemplativa «interna», in cui i personaggi sfolgorano in una bellezza e naturalezza che stride con la loro diversità. E questo soprattutto nei volti dei personaggi tursitani, nella cui raffigurazione D’Acunzo sembra esaltare la misteriosa condizione di solitudine e di assenza con un dolore e una malinconia che soltanto la cognizione della trascendenza non fa precipitare nella zona buia entro la quale si rivela tutta la tragicità della vita. L’omogeneità stilistica e tematica di questi ritratti ci porta a interrogarci se la rappresentazione artistica sia qualcosa di più della semplice raffigurazione della realtà oppure, al contrario, se la semplice raffigurazione della realtà sia qualcosa di più della rappresentazione artistica. Qualunque risposta vogliamo dare a questo interrogativo, dobbiamo fare i conti con l’intelletto, che pretende di ricavare la comprensione dell’essenza dell’arte dall’analisi delle opere d’arte. Per rintracciare l’essenza dell’arte, che risiede nelle opere d’arte, dobbiamo chiedere ad esse che cosa e come siano, senza arrestarci ai loro caratteri estrinseci, dai quali comunque non possiamo prescindere. Ma ogni opera d’arte, come anche questi ritratti, è qualcos’altro: è al di là dei caratteri estrinseci che contrassegnano le modalità della sua rappresentazione sensibile, sulla quale comunque questo qualcos’altro poggia come su una specie di basamento. Per arrivare a questo qualcos’altro è necessario penetrare in queste raffigurazioni, ponendo in luce la loro provenienza essenziale, che non ha nulla a che vedere con la loro presunta evidenza immediata. Commetteremmo un errore esiziale, se credessimo di poter ricavare dalle nostre descrizioni soggettive la loro provenienza essenziale. Contro ogni apparenza iniziale, ogni opera d’arte non è altro che non-nascondimento dell’essere, quello che i Greci chiamavano “verità” (αληθεια). Di conseguenza, l’arte non è un’imitazione o una copia della realtà: una raffigurazione artistica non ritrae una semplice presenza, come dimostrano questi ritratti che anche quando raffigurano una realtà non postulano un mero rapporto descrittivo. Di fatto, in queste raffigurazioni ha luogo un di-svelamento, un’apertura, dei personaggi raffigurati che pone in opera la verità del loro essere autentico. In questo di-svelamento D’Acunzo tenta di sottrarre ai personaggi rappresentati tutti i rapporti che essi hanno con ciò che non sono, lasciandoli sussistere in se stessi, lasciandoli essere nel loro puro sussistere in sé stessi. Nella sua ispirazione narrativa ha associato e intrecciato insieme diverse vicende nel segno di un limite continuamente superato e tuttavia mantenuto in una permanenza ordinata, perché da esso è stato rimosso ciò che potrebbe impedire la visione dell’essenziale. La cifra di questi ritratti, mi sembra, consiste in questa cadenza, nella quale si riaffacciano prepotentemente percezioni situazionali che non sono estranee al buio della disperazione e alla diversità della follia. In altre parole, la linea conduttrice della sua pittura si può cogliere nell’atmosfera carica di memoria in cui raffigura e avvolge le persone ritratte, che si sovrappone alla complessità dell’esistenza quotidiana. Attraverso la pittura, senza strumentazioni metafisiche, D’Acunzo colloca in una dimensione metafisica, intensa e straordinaria, realtà che la ragione umana stenta a comprendere, prendendo spesso spunti dal mondo marginale, fatto di crude realtà e vite sacrificate, che nelle loro diverse condizioni denunciano la società contemporanea nei suoi aspetti di alienazione, sofferenza e solitudine. Roma, 23 Aprile 2010 |